Un lungo weekend psichedelico. L’argento vivo dei Quicksilver Messenger Service.

Un lungo weekend psichedelico. L’argento vivo dei Quicksilver Messenger Service.

Uno dei dischi più importanti del periodo psichedelico della scena di San Francisco, Happy Trails, si apre con un bending di chitarra, un lungo muggito che chiunque abbia imparato ad amare i Quicksilver Messenger Service riconosce con una stretta al cuore e, insieme, con l’esaltazione che si prova quando si parte per un lungo, splendido viaggio.

Così inizia Happy Trails (1969), con Who do you love, la ballata saltellante rubata a Bo Diddley e trasformata in un viaggio che sa di peyotl, deserto e, soprattutto, chitarre elettriche distorte e impure, subito pronte ad andare in larsen, un suono che è vero marchio distintivo dell’album.

I Quicksilver Messenger Service furono questo: un manipolo di cowboy che cavalcarono per pochi anni l’ondata psichedelica di San Francisco, ma lo fecero in un modo del tutto particolare. L’impressione è che, pur rientrando per affinità nello stesso giro di Grateful Dead, 13th floor elevator, Jefferson Airplane, non vi si riconobbero mai interamente.

I Jefferson Airplane, per esempio, si immolarono al flower power, allo stesso tempo santificando e dannando sé stessi. Come scrive qui Piero Scaruffi, Grace Slick e compagni non si resero conto (o forse se ne resero conto e non gli interessò) che dando l’anima e il cuore alla “filosofia hippie” ne sarebbero diventati gli idoli, ma una volta passata la moda in pochi li avrebbero ricordati, se non per hit come White Rabbit e Somebody to love.

I Quicksilver Messenger Service, al contrario, non sposarono mai nessuna filosofia, non si votarono ad alcun santo protettore, non si trasformarono mai in icone, si consegnarono spontaneamente all’oblio. L’impressione è che tutto quello che interessò loro fu suonare il più possibile, quasi presentissero l’ombra di una fine prematura. Emblematica la loro scelta di non produrre materiale registrato, testardamente rispettata per tutto il loro primo periodo. Lo stesso Happy Trails è in larga parte un live, registrato o forse “rubato” al Fillmore East e al Fillmore West. Un live impuro, sulla linea di confine fra jazz, rock “ortodosso”, psichedelia, prodromi dell’hard rock che fioriscono e si intrecciano grazie a una sensibilità chitarristica senza pari.

Come gli ultimi, crepuscolari cowboy prima dell’arrivo della macchina a vapore, I Quicksilver Messenger Service furono incuranti, spacconi, fuori di testa, indifferenti all’oblio o alla gloria, più selvaggi dei selvaggi. Mentre alcuni di loro finivano in galera per droga, i restanti con le loro chitarre elettriche sbeffeggiavano la legge degli uomini e la morte, che pure li prese di mira (artisticamente parlando) dal primo momento in cui calcarono un palco. In Happy Trails suonarono lunghe suite sonore, continuando a sperimentare per breve tempo, circondandosi di pochi ascoltatori entusiasti, che nonostante tutto faticarono a comprenderli fino in fondo. Con la ritrosia e insieme la vitalità che li contraddistingueva, costruirono senza rendersene conto un monumento all’effimero e all’indimenticabile. Negandosi continuamente e preoccupandosi solo di suonare le loro chitarre divennero eterni come un canto epico.

E infatti è un’enorme, inclassificabile vallata sonora quella che si propone all’ascoltatore di Happy Trails: un sapiente uso della dinamica e un groove personalissimo, riff jazz e insieme classicheggianti elettrificati dalle chitarre distorte, blues rianimati con la stessa carica elettrica, la stessa violenza con cui un Frankestein avrebbe risvegliato il suo mostro. Alla base un gusto straordinario, insieme raffinato e popolaresco, che risalta ad esempio nella splendida seconda parte di Who do you love, in cui si susseguono esplosioni musicali, cori appena sussurrati, accelerazioni e note suonate pianissimo. Chitarre sfrangiate dal tremolo e insieme glorificate dagli assoli di chitarra nell’indimenticabile, percussiva Mona, dove la voce incide una delle canzoni d’amore più belle e selvagge della storia del rock. Psichedelici fino al midollo nel lunghissimo interludio Calvary, con echi western e insieme epici che fanno pensare alla colonna sonora perfetta per un’invasione indiana di Cormac McCarthy. Tredici minuti in cui rintoccano campane e partono schiocchi di frusta, campanelle e un mare di dissonanze che sembra dissotterrare le asce di guerra dei pellerossa morti e, più indietro ancora, le lance acuminate di inquieti guerrieri aztechi.

Esattamente come cowboy, troppo liberi per essere di questo mondo, troppo sporchi e viziosi e selvaggi per essere semplicemente ripuliti e infilati in qualsiasi teoria di marketing del rock ‘n’ roll, furono un fuoco fatuo nel panorama musicale degli anni Sessanta e Settanta, presto raffreddandosi come un falò nel mattino del Mojave. Ma ciò che lasciarono, le braci sotto la cenere, fu se non un’intera discografia memorabile almeno il magnifico Happy Trails.

Artisticamente morti da oltre trent’anni (poiché non valgono i tanti tentativi di rianimazione di alcuni superstiti) Happy Trails suona ancora. Il cowboy può morire, ma il suo fantasma rimane. Perché le note di Happy Trails passano attraverso le sonorità di ragazzi di neanche vent’anni che li imitano a volte senza nemmeno rendersene conto, e in moltissimi gruppi rock contemporanei che hanno nella chitarra elettrica l’impronta distintiva. Il fantasma del cowboy si agita ancora lungo il confine, monito e insieme bellezza della grande frontiera.

La loro breve eppure indimenticabile carriera si potrebbe riassumere parafrasando John Ford: cavalcarono insieme. E noi così li ricorderemo. In sella, per sempre, lungo i confini di una sfavillante San Francisco sonora.

Happy Trails to you, until we meet again.