“I wish, I wish, I wish in vain
That we could sit simply in that room again
Ten thousand dollars at the drop of a hat
I’d give it all gladly if our lives could be like that”.
Bob Dylan’s Dream
Fossi Conte scriverei New York per noi, che stiamo in fondo alla campagna… Sì, perché ci si sente “un po’ così”, a leggere questo nuovo libro di Paolo Cognetti, pubblicato da EDT (a chi questa sigla non dice niente ricorderò che si tratta dell’editore che pubblica, fra le tante cose, ottimi libri di gastronomia e le guide Lonely Planet in edizione italiana). Il titolo è splendido, quasi a metà strada tra Fante e Whitman: Tutte le mie preghiere guardano verso Ovest.
Il leitmotiv che dovrebbe attraversare l’intero libro è costituito dal cibo. “Dovrebbe” perché, di fatto, ci si ritrova presto immersi in New York, nella città stessa, dove il gusto è solo uno dei sensi coinvolti. Miracolo della (buona) scrittura, e subito vedi i colori, senti gli odori, il cuore batte più forte quando ti ritrovi a chiacchierare intorno a un tavolo, anche tu, con Roberto e con gli altri amici italiani ormai emigrati anni fa negli Stati Uniti, davanti a certi paesaggi che ti scorrono davanti in Cinemascope, magari percorsi pedalando in bicicletta.
È poi questo un libro dall’incedere particolare, che mi ha stupito. Perché tutto mi aspettavo tranne questo ritmo grosso, a tratti solenne, corale, da scrittore classico. Uno stile vecchio, in tutte le possibili buone accezioni che può avere oggi questa parola che mortifica e zittisce le piccole anime spaventate, come un tabù. Nell’era dei social, dei 140 caratteri, nella civiltà del suono o dell’immagine che sia, mi ha fatto venire la pelle d’oca avere fra le mani quello che a tratti mi sembrava il diario di un esploratore, anzi di uno scrittore, di inizio Novecento. Ho pensato per un attimo a Emanuel Carnevali e al Primo Dio, ho ripensato assurdamente a Parigi e a Henry Miller, e sì, ho ripensato a Fante, poi ho capito che stavo diventando troppo sentimentale, preso anch’io in un ritmo terzinato da bohème, una maledettissima maccaja che mi si parava dinnanzi, qualcosa che ti può rubare il cuore, se sei così stupido da mostrargli dove lo tieni.
Perché, a conti fatti, questo libro è una guida su New York, i posti da vedere, i cibi da assaggiare, la sua storia che si fa a strati, anni e anni impilati uno sull’altro. Ma è anche un libro che ci racconta del viaggiare e delle suole di vento che tutti, prima o poi, abbiamo indossato e che non dovremmo mai scordarci di avere, magari dimenticate nell’ultimo cassetto dei vestiti smessi. Alla fine del libro miracolosamente New York quasi sfuma, ti sembra di vederla avvolta in una nebbia che non le è mai appartenuta. Passa Cognetti, passano le parole. Passa l’America, come la chiamiamo noi provinciali, o se volete gli Stati Uniti. Il libro ritorna libro, una volta che l’hai richiuso. Tutto ritorna a far parte del fondale, tutto si fissa in un’immagine statica, l’unica sensazione che ti resta dentro sono le palpitazioni roboanti che rimandano al viaggio, l’idea che non dovresti mai smettere di viaggiare, non dovresti mai restare seduto troppo a lungo, che appena poggi il culo su quella poltrona troppo comoda inizi un po’ a morire. Non a diventare vecchio, ma a morire mentre ancora respiri, una maledizione di bukowskiana memoria. Cognetti, inserendosi in una nobile e antica tradizione di scrittori viaggiatori, scrive per ricordarcelo una volta in più.
Perché New York, come Genova, può anche essere un’idea come un’altra. Ma il viaggio, il viaggio è la vita.
“L’Empire State Building indica il nord da queste parti, impossibile sbagliarsi quando lo vedi in fondo a una via. Risalgo Mott Street e le sue pasticcerie, i parrucchieri, gli orologiai, una chiesa cattolica cinese e una boutique di vestiti da sposa, e infine emergo in Canal Street tra i negozi di cianfrusaglie e i resti di Little Italy, ormai solo un pugno di ristoranti per turisti. Con i festoni come fosse San Gennaro tutto l’anno, i camerieri ruffiani che ti invitano dentro, le tovaglie a quadretti, le bandiere tricolori. Pare che un tempo ognuna di queste vie fosse una microcomunità regionale: i calabresi su Mott, i napoletani su Mulberry, i siciliani su Elizabeth”.
Paolo Cognetti. Tutte le mie preghiere guardano verso Ovest.
Pag. 120, 7,90 euro
EDT, 2014