Paolocontiana (senza parole, o quasi)

Paolocontiana (senza parole, o quasi)

I started out very quiet and I beat Mr. Turgenev. Then I trained hard and I beat Mr. de Maupassant. I’ve fought two draws with Mr. Stendhal, and I think I had an edge in the last one. But nobody’s going to get me in any ring with Mr. Tolstoy unless I’m crazy or I keep getting better.
Hernest Hemingway

Esistono salite inaffrontabili. Lo sanno tutti i veri scalatori, del ciclismo e della vita. Ci puoi sempre provare, ma certe salite non le scali. Sono quelle che portano all’Olimpo, lo vedi da come si inerpicano sulla montagna, in quel modo strano, che non c’entra niente con le salite che hai sempre visto. Come non si legge mai la poesia, ma è la poesia a leggere te, così è la salita. Tu sali, e intanto lei ti legge dentro. Non te ne accorgi neanche, ma mentre scali lei ti ha già marchiato: uomini (quasi tutti) o semidei (i pochi eletti).

Certe salite sono come Tolstoj, ci ricorda quella famosa intervista a Hemingway di Lillian Ross. Hemingway, un misto di incoscienza e follia, un autore a cui piaceva spararla grossa. Ma soprattutto, come certi scrittori fuoriclasse, un rabdomante che l’ha sempre vista più lunga degli altri.

Senza fare paragoni assurdi, ma giusto per fare una battuta, scrivendo di Paolo Conte mi sento come Hemingway che pensa a Tolstoj. Non scalerei le sue salite nemmeno per fargli da gregario. Nemmeno se avessi quarant’anni e lui ottanta suonati. Non lo avvicinerei nemmeno per scriverci una recensione. Questa però non è una recensione, è un atto d’amore. Meglio, è un invito all’ascolto per il weekend.

Perché Paolo Conte, avvocato di professione e musicista per passione, ha compiuto pochi giorni fa 80 anni. Cifra tonda.

Lui, e rari altri superstiti, sono gli ultimi di una stirpe. Ho pochissimi rimpianti nella vita, ma uno è questo: non ho mai visto dal vivo De André. Perché anche se fin da bambino conoscevo un’infinità di sue canzoni a memoria (ecco i privilegi di un’educazione squisitamente atipica e un po’ brada) pensavo sempre ad altro.

Conte, invece, l’ho ascoltato un’infinità di volte. E ogni volta sono riemerso da un suo concerto con un ricordo indelebile.

In un anfiteatro a Salsomaggiore, mentre cantava Madeleine, ho scorto con la coda dell’occhio l’uomo che era di fianco a me, un uomo di trent’anni che conoscevo appena, asciugarsi timidamente una lacrima. Un gesto di un pudore e di una dolcezza infinita, compiuto da un marcantonio di quasi due metri.

L’ho visto ad Alghero, in abito da sera bianco. Era forse l’inizio della sua trasformazione: da cantautore jazzista inclassificabile a grande vecchio della musica mondiale. Posseduto dallo spirito di Ellington, ad ogni assolo sembrava evocare un musicista con un lungo, enigmatico gesto della mano, come richiamandolo alla vita da qualche club nella New York anni Trenta. L’orchestra suonava piano, la vita era ridotta all’essenziale, a quel tanto che bastava per essere felici. La vera musica, un vero amico al tuo fianco, cinquant’anni in due. Alghero soffiava mare e vento. Paolo Conte suonava piano, come se suonasse per una decina di amici, ed era il grande boxeur, tutto ventagli e silenzi.

L’ho visto in una serata memorabile da un palco del Teatro Regio. L’acustica era così perfetta che durante la sua Verde Milonga sentivamo scricchiolare le assi sotto quel pianoforte a coda lungo, nero, sontuoso come una Limousine. L’ho visto una seconda volta al Regio, molti anni dopo, ero ospite di una cara amica e di sua madre. Ricorderò sempre le quinte che si accendevano di fuoco poco prima di Diavolo Rosso. Sono attimi infinitesimali che per gli altri non vogliono dire niente, tu magari non te li scordi mai più. Vai a capire come ragiona la memoria.

E poi ho ascoltato in cuffia centinaia di volte Sparring Partner, pensando a un amico lontano, lo stesso di Alghero. Parigi l’ho vista veramente, a diciott’anni, e con quegli occhi non la vedrò mai più. La notte giravamo ubriachi per le strade, cantando a squarciagola, i francesi gettavano secchiate d’acqua dai palazzi. Parigi perduta. Ma negli anni l’ho sentita risuonare un milione di volte, Conte al piano e Haris Alexiou che gli ruba la voce. Quegli hotel in cui va a morire d’amore la gente resteranno indimenticati.

Così, come il suo sparring partner, certe cose le capisci a quarant’anni suonati. Per esempio, che la tua vita è stata sempre un po’ paolocontiana. Come scriveva Montale, ognuno riconosce i suoi.

Il maestro è nell’anima, dice la canzone, e dentro l’anima per sempre resterà. E quanto è vero. Allora due righe le butto lì. Giusto per non scordarmelo. E per fare a monsieur Paolo Conte i migliori auguri, in ritardo come al mio solito. Magari un giorno ci incontreremo là, oltre le illusioni di Timbuctù e le gambe lunghe di Babalù.