I’d like to send this one out for Lou and Rachel and all the kids and P.S. 192
Man, I’d swear, I’d give the whole thing up for you
Coney Island baby
I cattivi maestri. Ma non quelli elevati a spauracchio dai soliti vecchi culi flaccidi dei salottini tv, delle deprimenti pagine dei quotidiani, delle sciatte trasmissioni tv o reality show che di “reale” hanno solo il ruolo chiave nel costruire, minuto dopo minuto, la nuova ignoranza di massa.
Rivoglio i cattivi maestri, beceri e benedetti, che si facevano di eroina. Quelli che raccontavano di puttane e letteratura, e gloria e disperazione abbracciate (o avvinghiate) insieme, ognuna attaccata alla vita costi quel che costi, con una rabbia tanto forte da somigliare all’amore. I cattivi maestri che si infilavano nel più profondo buco dell’inferno per risorgere portando anche solo una parola, un verso, che sembrava scritto apposta per noi, troppo vero per essere mistificato. E una volta riapparsi, coperti di merda e fango e oro quel verso te lo regalavano, con una nobiltà che stonava con i visi asciutti, i modi ruvidi. Per noi, esseri drammaticamente incompleti e avidi di bellezza, erano brividi sulla pelle, palpiti e lacrime che ti ricordavano che eri vivo e splendevi, e così il tuo cuore.
Insomma, senza girarci troppo attorno se n’è andato Lou Reed, un compagno che ho tenuto con me fin da adolescente, sempre un suo verso in bocca, a invadermi il cuore e la pancia o un angolo della mente. Ne scrivo ora con un mezzo whisky sulla scrivania, qualche suo disco, una vecchia edizione di Fra pensiero ed espressione, per leggere e rileggere qualcosa di suo, incontrarlo di nuovo fra quelle pagine, come ci siamo incontrati per anni.
E se mai la morte servisse a qualcosa, io questa volta accetterei il patto sociale che fa di ogni artista morto un santino (altrettanto morto, ma alla gente sembra piaccia così). Cavalcherei per una volta questo imbroglio fino al parossismo, fino a fomentare una microrivoluzione, fino a costringere qualche incosciente ministro della Pubblica Ignoranza a passare i testi e le poesie di Lou Reed a scuola. Lui che fu uno dei più selvaggi e più intellettuali fra gli artisti americani contemporanei, forse, lo meriterebbe più di tanti poeti laureati. Per la sua capacità di offrirsi alla bocca acuminata della bellezza, per la sua voglia di raccontarci le sue lame e le sue beatitudini, il senso di libertà che ti trasmette e la schiavitù. Senza mai un accenno a nessun tipo di morale se non quella di prendere la vita sulla pelle, senza scudi.
E del resto anche un geniale e ieratico Alberto Moravia, intervistato dalla Paris Review, una volta dichiarò di non essere un moralista, perché verità e bellezza educano di per sé. E allora vorrei che Lou, inserito in un improbabile programma ministeriale, insegnasse ai ragazzi come toccare il fondo con eleganza, come risorgere da quel fondo con altrettanta dignità, come combattere per riconquistare quella luce sempre intravista fra le ombre di una vita percorsa tutta in senso contrario. Vorrei far loro ascoltare prima Heroin, poi Candy says (nella versione che gira sul web, in duo con Antony), Rock’n’roll e Venus in furs, Berlin, Coney Island Baby, l’intero disco New York, poi gli ultimi lavori, anche quelli reputati minori. Li vorrei vedere disorientati, schifati, alla peggio indifferenti. Vorrei poi osservare la meraviglia riempire gli occhi di quei pochi o tanti che, alla fine, inizierebbero a capire il fascino di quella voce profonda e non sempre lirica, delle chitarre dissonanti.
Perché ho letto di recente una frase: perfection is perversion. E vorrei che Lou, con la sua eroina, gli elettroshock imposti a sedici anni per “curare” la sua bisessualità, con i suoi poeti e scrittori studiati e sparati in vena, con le sue storie dedicate alla nostra parte selvaggia, con il suo alla fine maturare come un albero cresciuto nel freddo e nella roccia (e ogni volta un disco prodotto come una pietra miliare di quel viaggio straordinario che è stata la sua vita) salvasse qualcuno di quei ragazzi. Allo stesso modo in cui, ormai tanto tempo fa, salvò me. Che li salvasse, semplicemente, dall’idea che tutto ciò che è classico, levigato e lineare è anche giusto. Che li mettesse in guardia, soprattutto, dall’idea di purezza, da quella madre arida e spietata che è l’illusione della perfezione.
Che facesse capire, a loro e a chi teme i cattivi maestri, che ogni educazione deve essere cattiva, perché qualsiasi crescita non può che essere contorta, sudata, impura. E tanto più lo sarà tanto più sarà autentica. Non c’è amore che insieme alle parole celesti dei poeti non porti con sé sperma e saliva e carne, forse lo schiocco della frusta e la ruggine di una catena. Non c’è vita che non sia peccato e, solo eventualmente, redenzione.
Fra gli innumerevoli capolavori fatti prima con i Velvet Underground e poi come solista, ce n’è uno che in questi giorni ascolterò molto, un concept album nato per la faticosa e sofferta elaborazione di un lutto, che si avvicina all’idea della morte con una delicatezza e insieme con una concretezza rara. Così serberò con me quella frase di Magic and Loss che ascoltai intorno ai vent’anni, e il cui significato non ho mai più dimenticato, monito e benedizione ondeggiante sul mio capo (non più) adolescente. Quella frase chiudeva, giustamente, l’intero disco, suggellava come un ultimo bacio un’intera storia fatta di amicizia, e sorrisi, e l’ombra di quella ineluttabile sconfitta con cui, presto o tardi, tutti dobbiamo fare i conti. All’incirca, la frase tradotta suona così: esiste un po’ di magia in ogni cosa, e poi una qualche perdita per compensare le cose.
E suona terribilmente, stupendamente autentica. Come tutte le parole e le sonorità che rimandano al ragazzo di Coney Island.
(rubrica uscita sul sito della Luna di Traverso)