“If you give up New York
I’ll give you Tennessee.
The only place to be”.
The Face, Kings of Leon
I Kings of Leon non suonano il rock ‘n’ roll. I Kings of Leon sono l’incarnazione del rock ‘n’ roll, almeno di quello contemporaneo. Rappresentano, in luce e ombra, la musica che più fra tutte ha saputo detronizzare qualsiasi altro genere, al tempo stesso portandosi dietro una marea di imperfezioni e contraddizioni.
Prima di tutto la storia: tre fratelli adolescenti del Tennessee che passano gran parte delle loro giornate viaggiando nel sud degli Stati Uniti su una Oldsmobile. Seguono le prediche del padre, Ivan Followill detto “il leone”, predicatore itinerante alcolizzato e violento che alla fine lascerà il ministero e la famiglia. Finché dura, i tre vengono spesso ingaggiati nelle chiese in cui il padre predica per suonare brani religiosi. E questo è l’inizio della loro carriera.
Suona familiare? Forse sì, perché sembra l’inizio di una sceneggiatura di Nic Pizzolatto. Invece alla finzione si somma la realtà, tutta da vedere nello splendido documentario Talihina Sky, che oltre a raccontare la storia del gruppo racconta del Tennessee e della sua lontananza dall’America più patinata.
Quando tutto sembra andare in pezzi i tre si spostano a Nashville, portandosi dietro un cugino che suona la chitarra. Scoprono il rock ‘n’ roll e Angelo Petraglia, un cantautore fondamentale per la loro storia e per gli arrangiamenti dei pezzi.
Pubblicano i primi dischi. Le registrazioni sono violente, martellanti, ruvide come una pietra grezza. Molly’s chambers, Happy Alone, Velvet Snow o Four Kicks in questo senso sono pietre miliari, tutte da ascoltare con il volume a palla.
Poi qualcosa cambia. Probabilmente arriva il successo. Ricordo che quando uscì Discotheque degli U2 in molti ci ritrovammo spiazzati nel vedere i paladini irlandesi di Sunday Bloody Sunday sculettare fra luci strobo e cubiste. Ma in un’intervista Bono fece una dichiarazione emblematica: «Ci siamo mangiati il mostro prima che il mostro mangiasse noi».
Forse ai KoL il trucco, o il pasto, non riesce. E anche se il mostro non se li mangia, tira loro un’unghiata che sembra marchiarli per sempre. Iniziano le polemiche, chi li segue parla sempre più spesso di live discontinui, che oscillano fra splendide performance e flop clamorosi, qua e là qualche apparizione tv surreale.
Contemporaneamente la musica in studio si raffina, passa dall’underground dei club alla luce delle arene e degli stadi, cede il passo ad arrangiamenti più complessi che lasciano spazio alle chitarre ma anche alla voce (splendida e molto southern) del cantante Caleb Followill. I video, più curati di un tempo, sono piccoli film, microstorie che riassumono al meglio i testi scritti da Caleb, che anche quando parla di sesso o d’amore non è quasi mai introspettivo ma racconta a sua volta storie, più o meno vissute in prima persona. In ordine sparso Beautiful War, Pyro, Radioactive, Notion riassumono questa loro svolta.
Questi i Kings of Leon, che dedicano all’alcolismo, alla violenza, ma anche alla fede e all’amore del padre Ivan “Leon” Followill il nome della loro band. Ecco l’essenza stessa del rock contemporaneo, splendida bestia da stile perennemente intrappolata fra miseria e nobiltà, energia e stanchezza, il ritmo martellante che ti porta avanti e, insieme, il peso del passato e dei ricordi che vorrebbe costringerti a voltarti indietro. Il ruvido e il tenero, il cuore che batte e la mano sudata sul manico della chitarra.
Che cosa faranno nei prossimi anni i quattro venuti dal Tennessee è tutto da vedere. Forse, come cantano in uno dei loro pezzi migliori, manderanno tutto in malora e torneranno a sud, dove tutto è iniziato, dov’è la loro casa. Per ora custodiscono e tengono viva la fiamma, e noi che li ascoltiamo non possiamo che ringraziarli per le emozioni che il loro fuoco ci regala.